EVOLUZIONE DEL REATO DI VIOLENZA SESSUALE DI GRUPPO

Sezione: Indagini penali difensive

INTRODUZIONE 
Il Dott. Giordano Rosati si occupa da anni di investigazioni e criminologia, le sue due grandi passioni dopo la Laurea in giurisprudenza ed un percorso formativo che si attaglia a tali settori, rendendolo oggi un professionista nel settore di riferimento. 

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È attualmente Amministratore del Gruppo Saros Investigazioni, istituto o con sedi direzionali a Roma e Milano e sedi operative capillarmente dislocate su tutto il territorio nazionale.

Di seguito una disamina approfondita del reato di Violenza sessualeche lo stesso ha stilato
Da anni mi occupo di indagini sia in ambito civile che penale. Riguardo al secondo ambito, i casi che mi sono stati sottoposti da studi legali e privati, al fine di prestare un’attività investigativa difensiva sono stati molteplici e un gran numero di questi vertevano sul reato di violenza sessuale sia perpetrata da soggetto singolo che dal cosiddetto “gruppo”, dal quale poi è nata la fattispecie autonoma di “Violenza sessuale di gruppo” dove ogni compartecipe ricopre un ruolo primario o secondario a seconda dell’azione dallo stesso posta in essere e per questo punibile con pene diverse.  Tenterò di compiere un’analisi organica del delitto di violenza sessuale di gruppo, alla luce della riforma introdotta dal legislatore nell’anno 1996. 

A tal fine, si porranno in luce le esigenze di natura storico-culturale che hanno accompagnato e suggerito una maggiore attenzione del legislatore sul tema della violenza sessuale perpetrata da più persone, inducendolo a definire un’autonoma figura di reato, attualmente prevista, come noto, dall’art. 609-octies c.p.

Al fine di comprendere le esatte ragioni che determinarono nell’allora legislatore la convinzione di introdurre il reato in esame, assumerà notevole importanza la comprensione, in termini generali, del fenomeno della violenza sessuale, così come concepito prima nel Codice Zanardelli e, poi, nel Codice Rocco. Da qui, dunque, risulterà certamente più agevole comprendere le ragioni che determinarono l’introduzione del reato di violenza sessuale di gruppo con la legge 15 febbraio 1996, n. 66. 

. Tutto ciò, con la speranza che l’elaborato, oltre ad illustrare dal punto di vista normativo i tratti caratteristici del reato di violenza sessuale di gruppo, possa fornire un ulteriore spunto di riflessione da ravvisarsi nel differente atteggiarsi degli elementi costitutivi del delitto nell’ambito di casi ove lo stesso si è manifestato nelle sue forme più diverse. 


CAPITOLO PRIMO
Evoluzione storica del delitto di violenza sessuale
1.                Il delitto di violenza sessuale nel codice zanardelli
In Italia il delitto di violenza sessuale è stato introdotto per la prima volta nel codice penale del 1890 (cd. Codice Zanardelli), sulla base delle esperienze giuridiche internazionali, con particolare riferimento a quella francese e tedesca. Di qui, infatti, trae origine la positivizzazione del reato in parola nei termini più generali, ove la nozione di violenza carnale era strettamente ancorata al concetto “antico” di stupro[1], nonché alle qualificazioni che lo stupro in detto contesto riceveva. In tal senso, infatti, l’attività sessuale di una persona, lungi dall’essere considerata espressione della sua libertà individuale, veniva finalizzata piuttosto al perseguimento di uno scopo ben preciso: quello procreativo. 
Di conseguenza, qualsiasi rapporto sessuale che non venisse indirizzato a detto scopo rappresentava per l’ordinamento giuridico, in particolare quello francese, un illecito. Alla base di una tale concezione settecentesca dell’attività sessuale si poneva l’idea dello Stato che, nella qualità di portatore di pubblici interessi, avocava a sé il compito di controllare anche l’attività sessuale del cittadino.
Tra le ipotesi di reato, si distingueva, anzitutto, il cd. “stupro semplice”, fattispecie ereditata dal passato quale reliquia dei delicta carnis, consistente nel solo fatto della congiunzione carnale con una donna nubile e di onesti costumi, nonché nell’adulterio con donna coniugata[2]. Tale incriminazione trovava la propria giustificazione nella volontà dello Stato di tutelare il valore pubblico della famiglia che, a causa dei fatti integrativi dello stupro semplice, risultava compromesso. Ad ulteriore conferma di quanto affermato, si sottolinea che nella società settecentesca non assumeva alcuna rilevanza lo stupro semplice qualora la donna fosse una prostituta; laddove, invece, la vittima dello stupro risultava essere una donna consacrata alla vita religiosa, vi era un inasprimento della pena.
Vi era poi il cd. “stupro qualificato”, definito tale poiché in detta ipotesi assumeva rilievo la seduzione della donna; il defloratore, infatti, persuadeva la sedotta con false promesse[3].
Infine, un’ultima figura di stupro era rappresentata dal cd. “stupro violento”, la cui natura è molto vicina a quella che, qualche secolo dopo, il legislatore del 1930 avrebbe qualificato come violenza carnale, caratterizzata dal ricorso alla violenza o minaccia.
Nelle ultime due fattispecie penali sopramenzionate, la donna non era punita in concorso necessario con l’uomo in virtù della minore capacità di difesa del proprio vincolo di destinazione dinanzi alla violenza del soggetto agente. Tuttavia la donna, affinché potesse andare esente da qualsiasi sanzione penale, doveva dimostrare di aver resistito con tutte le sue possibilità, così da dimostrare che non avrebbe potuto agire diversamente, ponendo in essere una condotta più efficace da quella tentata[4].
Va rilevato, poi, come nel corso del Settecento il sistema penale repressivo dell’Ancien Régimesi incrina, lasciando il posto alla critica illuministica contro le ingiustizie, originate per lo più dall’aver considerato la società non come un’unione di uomini titolari di diritti egualitari, ma come entità dominata da poche famiglie facoltose in grado di monopolizzare la legge.
Ed è proprio agli inizi dell’800 che sorsero dispute animate in ordine alla rilevanza (o meno) della figura dello stupro semplice. Da un lato, i fautori della depenalizzazione delle qualificazioni dello stupro semplice, diverse dalla violenza, sostenevano che non vi poteva essere principio giuridico che giustificasse la valenza penale di un delitto quando non vi è separazione tra peccato e delitto, muovendo sulla base del disinteresse della scienza penalistica per comportamenti non riconducibili ad una precisa lesione del diritto e nei confronti della distinzione tra il diritto e la morale. Dall’altro lato, ulteriore opzione dottrinale sosteneva, invece, la necessità di riconoscere rilevanza giuridica al mero stupro (semplice): lo stupro doveva essere punito poiché alterando l’ordine delle famiglie cagionava un danno politico alla società.
La sintesi delle tesi dottrinarie emerse anche in ragione dei moti illuministici di fine Settecento va ricercata, dunque, nel codice napoleonico del 1810, considerato come modello di riferimento per le attività di codificazione intraprese dagli autori del codice Zanardelli, in quanto è stato riconosciuto come il risultato di un valido compromesso tra filosofia illuministica e svolta autoritaria. In tal senso, l’accentuazione del rigore penale è stata realizzata con il solo obiettivo di rafforzare l’intimidazione necessaria alla conservazione di un ordine pubblico borghese.
Ebbene, ciò detto, si evidenzia che, parimenti al codice penale francese[5], la normativa in tema di «delitti sessuali» codificata nel Codice Zanardelli, è caratterizzata dall’assenza di qualsiasi dimensione individuale o personale. 
Per questa ragione, a causa del mancato riferimento alla libertà sessuale, l’oggetto generico della tutela penale viene individuato nell’ “interesse sociale di assicurare il bene giuridico dell’inviolabilità carnale della persona[6], quindi, negli stessi termini, l’oggetto specifico della tutela penale viene presentato quale interesse, pubblico o sociale, di assicurare il bene giuridico individuale dell’inviolabilità carnale della persona. 
In tal senso, la tutela penale viene garantita tramite il riconoscimento di un interesse, sociale o pubblico, alla protezione di quel bene giuridico che il legislatore ha individuato nell’inviolabilità carnale della persona umana alla quale esso appartiene. L’impostazione adottata nel codice Zanardelli non tiene conto del soggetto attivo del reato e delle esigenze di prevenzione dovute alla sua personalità.  
Venuta meno, poi, la rilevanza penale dello stupro semplice e dello stupro qualificato: il legislatore del 1889 decise di mantenere soltanto la figura dello stupro violento.
Secondo le disposizioni normative contenute nel codice penale Zanardelli, erano previsti casi in cui la congiunzione carnale e gli atti di libidine violenti, su cui ci si soffermerà tra breve, venivano puniti indipendentemente dall’uso della violenza o della minaccia. Queste particolari ipotesi di reato venivano configurate come penalmente rilevanti soltanto in condizioni specifiche, secondo le quali si doveva tenere conto dell’età della persona con la quale avveniva la congiunzione o sulla quale venivano compiuti atti di libidine violenti; delle sue condizioni di salute di mente o di corpo, ovvero dei rapporti esistenti tra questa persona e il soggetto attivo del reato. La convinzione che, in determinate circostanze, un soggetto non fosse in grado di opporsi alle iniziative altrui o non fosse in grado di valutare consapevolmente il significato di determinati atti sessuali, costituiva il presupposto di queste incriminazioni.
E, dunque, nel Codice Zanardelli vengono descritte le diverse fattispecie della violenza carnale (articolo 331 c.p.) e degli atti di libidine violenti (articolo 333 c.p.). Del delitto di violenza carnale è responsabile “chiunque, con violenza o minaccia, costringe una persona dell’uno o dell’altro sesso a congiunzione carnale”; del delitto di atti di libidine violenti, invece, è responsabile “chiunque, con violenza o minaccia, compie su una persona, dell’uno o dell’altro sesso, atti di libidine non diretti a commettere il delitto di violenza carnale”.        
Sul punto, la dottrina di fine Ottocento[7]non si è limitata a sottolineare come, sul piano materiale, l’atto di libidine e quello destinato a realizzare la congiunzione carnale possano essere identici, ma ha evidenziato come la distinzione fra il tentativo di violenza carnale e gli atti di libidine violenti può essere colta sul piano dell’“intenzione, la quale se è di congiunzione carnale presenterà lo stupro consumato o tentato, se è rivolta a qualunque altro fine libidinoso darà l’attentato al pudore”.                                                                                                      
La realizzazione dei delitti di violenza carnale e di atti di libidine violenti può essere constatata nella sola ipotesi in cui la congiunzione carnale o gli atti di libidine violenti vengono compiuti mediante l’uso della violenza o della minaccia e, quindi, vengono imposti alla persona offesa.
Dunque, il semplice dissenso della vittima non può ritenersi sufficiente alla consumazione del reato, bensì si esige la violenza ovvero la minaccia.    
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1.2.            Il delitto di violenza sessuale nel codice Rocco
Nel Codice Rocco, entrato in vigore il 1° luglio del 1931, i delitti concernenti la sfera sessuale e, segnatamente, le ipotesi di violenza carnale e di atti di libidine, sono collocati all’interno del Titolo IX del Libro II, tra le fattispecie poste a salvaguardia “Della moralità pubblica e del buon costume[8].
La nuova codificazione continuava a recepire dalla tradizione giuridica e culturale del tempo una concezione della sessualità e della corporeità intrisa di note pubblicistiche, con elementi nuovi riguardanti la diversità del bene giuridico che le norme in materia di reati sessuali erano chiamate a tutelare.
Esso, infatti, non doveva più rinvenirsi nel buon costume e nell’ordine delle famiglie, bensì nella moralità pubblica, intendendosi per tale la coscienza etica di un popolo in un dato momento storico, limitatamente alle manifestazioni dell’istinto sessuale che si pongono in contrasto con la coscienza etica comune.
L’offesa derivante da coercizione fisica nell’atto sessuale non si riteneva, infatti, arrecata alla persona che subiva, ma al bene della pubblica moralità.
Essa, in buona sostanza, era identificata con l’aspetto interiore ed intimo del comune sentire in materia sessuale, mentre il buon costume era collegato all’aspetto esteriore del comportamento umano[9].
Tale qualificazione, lungi dal costituire il solitario frutto dell’ideologia ispiratrice del Codice Rocco, era il seguito di una risalente tradizione legislativa, non solo italiana. Per quanto riguardava i codici stranieri, essa andava dai codici più antichi, quali quello imperiale tedesco e quello spagnolo del 1870, che collocavano i reati sessuali fra quelli contro il buon costume, ai codici più recenti, quali quello norvegese del 1902 e quello danese del 1930, coevo al nostro, persistenti nella collocazione pubblicistica tradizionale.
Peraltro, in rottura con la tradizione, il legislatore del 1930, pur continuando a riferire i reati in materia sessuale ad interessi di categoria dalle connotazioni marcatamente pubblicistiche, aveva attribuito, in maniera del tutto innovativa e anticipatrice dei tempi, significativa rilevanza alla “libertà sessuale”, indicata come oggetto della tutela specifica inerente ai delitti di violenza sessuale.  
Di ciò si trova conferma nella stessa relazione ministeriale al progetto del codice penale, ove si legge che la libertà sessuale tutelata consiste nella “libera disposizione del proprio corpo nei rapporti sessuali[10].  
Detta normativa, infatti, pur inserita all’interno del Titolo IX, era collocata sotto il Capo I, intitolato “Dei delitti contro la libertà sessuale”.  
Questa originaria sistemazione era il frutto di una scelta legislativa che, sia pure in termini timidi e compromissori, costituiva un mutamento di rotta rispetto alle normative previdenti, paradossalmente ritenuto all’epoca fin troppo liberale.  
Invero, nella sistematica del codice si annidava, agli occhi della dottrina, una certa dose di contraddittorietà ed ambiguità, stante l’inconciliabilità della tutela degli interessi ultraindividuali del buon costume e della moralità pubblica con la protezione di un bene individuale, quale quello della libera disponibilità del proprio corpo e della propria sessualità. Non sembrava logico, infatti, considerare la libertà sessuale come una sottospecie della moralità pubblica, dal momento che i due gruppi di reati differiscono profondamente tra loro, non fosse altro perché quelli del primo gruppo aggrediscono, almeno in prevalenza, singoli individui, mentre quelli del secondo offendono quasi soltanto la collettività, cioè il pubblico. E la diversità risulta ancor più evidente se si pensa che l’oggetto giuridico “libertà sessuale” non è un attributo della società, bensì dei soggetti che subiscono l’offesa, tanto che il legislatore ha privilegiato la perseguibilità a querela.  
Ciò è riconosciuto nella Relazione del Ministro Guardasigilli al Re, al n. 170, dove si legge, fra l’altro: “Idelitti in discorso sono caratterizzati dalla violenza e dalla frode. Ora, tanto l’una quanto l’altra ledono la libertà, e precisamente quella libertà che consiste nella libera disposizione del proprio corpo ai fini sessuali, entro i limiti del diritto e del costume sociale. E invero l’esistenza di tale libertà, tra i beni giuridici della persona, non può essere negata”.  
L’antinomia tra le due classi di reati era evidente, e ci si chiedeva quale fosse veramente l’effettiva oggettività giuridica dei reati sessuali. La contraddizione, tuttavia, si rivela in realtà apparente, perché nella sublimazione pubblicistica di tutti gli interessi protetti dal legislatore dell’epoca, in quanto compatibili con la tavola di valori espressi dallo Stato etico, anche la libertà sessuale o “disponibilità sessuale” veniva tutelata non come valore intrinseco della persona, ma nei limiti della sua corrispondenza al superiore valore della moralità pubblica.
Giova precisare che, mentre in passato il rapporto sessuale era inteso in senso unisoggettivo e materialistico, come atto di incontro tra un soggetto che manifestava la propria libidine ed un corpo che era asservito al piacere altrui, ora, invece, tale concezione si è evoluta, valorizzando la sessualità come veicolo di espressione della personalità umana e strumento di comunicazione interpersonale, cui è estranea qualsiasi forma di riduzione ad oggetto del corpo umano.
In virtù del principio di libertà, pertanto, il legislatore del 1930 considerava reato il compimento di taluni atti sessuali non in relazione all’atto compiuto, bensì con riferimento alle modalità con cui la sfera sessuale altrui era violata.
Dal punto di vista delle fattispecie incriminatrici, il codice penale del 1930 manteneva intatta la distinzione già presente nel Codice Zanardelli tra il reato di violenza carnale e quello di atti di libidine violenti, ipotesi disciplinate rispettivamente agli articoli 519 c.p. e 521 c.p.
Analogamente a quanto avveniva nella precedente normativa, anche nel Codice Rocco, ai fini dell’integrazione delle due fattispecie, non si reputava sufficiente il mero dissenso della vittima, essendo necessario, invece, che la condotta fosse accompagnata da violenza o minaccia. Altra norma che merita di essere menzionata è l’art. 520 c.p., che disciplinava l’ipotesi di reato di “violenza carnale abusiva”, consistente nella congiunzione carnale con persona arrestata o detenuta, di cui si aveva la custodia per ragione del proprio ufficio, ovvero con persona affidata al reo in esecuzione di un provvedimento dell’autorità competente. Nessuna novità si registrava rispetto al passato in merito ai casi di punibilità della congiunzione carnale commessa con violenza o minaccia, ma in considerazione dell’età della vittima o delle sue condizioni di salute.
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2.1. Genesi del reato di violenza sessuale di gruppo: legge 15 febbraio 1996, n. 66.
La L. 15 febbraio 1996, n. 66 ha operato in primo luogo un radicale mutamento della collocazione sistematica dei reati sessuali, procedendo all’abrogazione di tutti i delitti previsti e puniti dal Capo I (Dei delitti contro la libertà sessuale) del Titolo IX (Dei delitti contro la moralità pubblica e il buon costume) del codice penale, e alla contestuale introduzione, nell’ambito della Sezione II (Dei delitti contro la libertà personale) del Capo III (Dei delitti contro la libertà individuale) del Titolo XII (Delitti contro la persona) dei nuovi articoli da 609-bisa 609-deciesc.p., nei quali sono disciplinati i nuovi delitti sessuali (con esclusione delle fattispecie criminose in tema di prostituzione/pornografia, anche concernenti i minori , e di osceno). 
I nuovi delitti sessuali sono stati pertanto esplicitamente ricondotti dal legislatore del 1996 alla categoria dei delitti contro la libertà personale, in modo da valorizzarne il carattere offensivo della libertà fisica dell’individuo che spesso li contraddistingue.  
Alcuni Autori[11]hanno peraltro rilevato come sarebbe stata più corretta una collocazione di tali fattispecie incriminatrici nella Sezione III dello stesso Capo, ovverosia tra i delitti contro la libertà morale, considerando quale tratto caratterizzante di tali delitti la lesione della libertà di autodeterminazione del soggetto nella sfera sessuale, intesa quale libertà della sfera “interiore”, essendo la libertà “esteriore” lesa unicamente nei casi di aggressioni costrittive. 
Altri[12]ancora hanno sostenuto come, ritenuta la centralità del fattore fisico, e dunque della lesione della libertà personale (rectius,di disporre del proprio corpo senza interferenze altrui) – in quanto sempre e comunque la violenza sessuale (mono o plurisoggettiva), così come gli atti sessuali con minorenni, hanno ad oggetto il corpo della vittima, sul quale incidono in maniera più o meno intensa – sarebbe stato preferibile collocare sistematicamente i delitti sessuali in una autonoma sezione intitolata “Delitti contro la libertà sessuale”.
Ciò sottolineato, è comunque da apprezzare il mutamento di prospettiva del legislatore del 1996, il quale ha variato la prospettiva degli estensori del codice che avevano inquadrato la tutela della libertà sessuale quale mezzo per conseguire la tutela di un bene giuridico pubblicistico come la morale pubblica.
A seguito della riforma, invece, è ormai chiara la valenza personalistica e individuale del bene giuridico sotteso ai reati sessuali, ovverosia di quella libertà sessuale intesa come fondamentale connotato della persona umana, la cui ampiezza o protezione non può essere subordinata o limitata dalla considerazione di interessi del tutto eteronomi, come quelli della società intesa nel suo complesso.
Con riguardo alle principali modifiche introdotte dalla riforma, si annoverano nuove fattispecie criminose che solo parzialmente ricalcano quelle previgenti.
In particolare, non sono state riprodotte (con conseguente abrogatio criminis) tutte le disposizioni normative di cui agli artt. 522-526 c.p., ovvero quei reati facenti parte del diritto penale sessuale in senso lato che – si pensi al ratto a fine di libidine – oramai contrastavano integralmente con la nuova posizione di parità e di piena dignità assunta dalla donna e dal minore a seguito della Costituzione repubblicana del 1948. 
Per quanto concerne le altre infrazioni penali, i due delitti principali di violenza carnale (generale e del pubblico ufficiale) e di atti di libidine violenti sono confluiti nella fattispecie centrale di “Violenza sessuale” di cui all’art. 609-bisc.p., la quale peraltro non ha riprodotto la distinzione tra atti sessuali penetrativi (cioè la congiunzione carnale) ed atti sessuali non penetrativi (cioè  gli atti di libidine)[13].
Il legislatore del 1996 ha poi introdotto due nuove  incriminazioni: trattasi degli atti sessuali con minorenne (art. 609-quaterc.p.), con cui si attribuisce autonoma rilevanza alle interrelazioni sessuali con minori non connotate da induzione (ingannevole o abusiva) o costrizione, e della violenza sessuale di gruppo (art. 609-octiesc.p.), su cui si incentra il presente lavoro, ed attraverso la quale, come si dirà meglio successivamente, la partecipazione riunita di almeno due soggetti all’aggressione o abuso sessuale assurge finalmente ad elemento costitutivo di una fattispecie.
L’intervento legislativo ha modificato anche la misura delle sanzioni penali, provvedendo ad un loro sensibile aumento soprattutto con riferimento, per quel che interessa in tale sede, ai responsabili del compimento di atti sessuali costrittivi o abusivi nel caso in cui questi siano posti essere da due o più persone riunite. In tal caso, infatti, si passa dai tre anni del minimo edittale dell’art. 519 c.p. ai sei anni della nuova fattispecie autonoma di violenza sessuale di gruppo disciplinata dal nuovo art. 609-octiesc.p., cosicché l’inasprimento delle pene per questa tipologia particolarmente grave di aggressione sessuale non può più essere neutralizzato sistematicamente mediante il ricorso all’istituto del bilanciamento delle circostanze di cui all’art. 69 c.p. 
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2.2. L’incriminazione autonoma delle aggressioni sessuali di gruppo.  
Una delle novità della riforma dei reati sessuali del 1996, da salutare con grande soddisfazione poiché costituente uno dei progressi maggiori sotto il profilo della protezione legislativa delle vittime di aggressioni o abusi sessuali, è certamente l’introduzione, nel codice penale, del delitto di violenza sessuale di gruppo, previsto e punito, come accennato, dall’art. 609-octies c.p.[14].
Attraverso tale fattispecie criminosa il legislatore ha enucleato, dall’insieme delle condotte concorsuali nel delitto di violenza sessuale di cui all’art. 609-bisc.p. (cui la previsione dell’art. 609-octiesrimanda per quanto concerne la definizione della condotta tipica), alcune condotte ritenute dotate di uno spiccato disvalore, tale da legittimare la loro sottrazione alla disciplina comune di cui agli artt. 110 ss. c.p., e la loro autonoma incriminazione con un cornice edittale più consistente. 
In precedenza, invece, non era prevista alcuna variazione sanzionatoria in relazione alle aggressioni sessuali di gruppo, potendosi allora unicamente applicare l’aggravante comune di cui all’art. 61 n. 5 c.p., consistente nell’approfittare “di circostanze di tempo, di luogo o di persona tali da ostacolare la pubblica o privata difesa”, peraltro soggetta al ‘famigerato’ bilanciamento delle circostanze exart. 69 c.p.
In particolare, il criterio distintivo e caratterizzante la nuova fattispecie plurisoggettiva è stato individuato nella partecipazione di più persone riunite al compimento di atti sessuali dotati delle connotazioni costrittive o induttive di cui al delitto di violenza sessuale ex art. 609-bisc.p. 
In presenza di tali presupposti, i concorrenti (necessari o esterni) nel delitto di violenza sessuale di gruppo sono soggetti ad una pena superiore di un quinto (da sei a dodici anni di reclusione), sia nel minimo che nel massimo edittale, rispetto a quella prevista per la violenza sessuale “monosoggettiva”.
Il maggior rigore nella repressione degli atti sessuali illeciti commessi a danno della vittima da parte di più persone riunite, come si avrà modo di analizzare successivamente, è certamente giustificato da varie considerazioni. In primo luogo, è rilevante il dato pre-giuridico che spesso l’annientamento della resistenza della vittima al compimento di atti sessuali particolarmente intrusivi (come ad esempio lo stupro vero e proprio) è reso possibile solo dalla presenza di almeno due persone, delle quali una o più si occupino di neutralizzare l’opposizione del soggetto passivo, mentre, i restanti concorrenti realizzino l’interrelazione sessuale vera e propria. Per quel che interessa sottolineare già in tale sede, rinviando la trattazione del reato in parola alle pagine che seguono, si rileva che l’aggressione sessuale di gruppo, oltre che per le minori possibilità di resistenza di chi la subisce, si caratterizza anche per la maggiore umiliazione inflitta alla vittima e per la più intensa privazione della libertà sessuale, che viene ad essere più intensamente violata giacché l’intrusione nella sfera più intima della persona è maggiormente approfondita, poiché destinataria dello sfogo sessuale di più persone.
Si consideri, infine, che la presenza di più persone riunite in occasione del compimento di atti sessuali espone la vittima degli stessi – oltre che alla più sicura perfezione edal maggiore approfondimento dell’offesa alla libertà sessuale – anche al pericolo di subire altri reati, come le lesioni, la rapina, financo l’omicidio.

SECONDO CAPITOLO

Elementi costitutivi del reato di violenza sessuale di gruppo.

1.    Le fattispecie incriminatrici: la definizione, il bene giuridico protetto e l’oggetto dell’azione.
Addentrandoci, dunque, nel merito della fattispecie penale su cui involge il presente lavoro, si rileva come l’art. 609octies c.p., introdotto dalla Legge 15 febbraio 1996 n. 66 disponga “la violenza sessuale di gruppo consiste nella partecipazione, da parte di più persone riunite, ad atti di violenza sessuale di cui all’articolo 609bis”.
La norma, a tutt’oggi, viene considerata come una delle innovazioni più significative della riforma, dal momento che la codificazione di questa nuova fattispecie incriminatrice fornisce una risposta alla significativa esigenza di punire e condannare quelle condotte illecite, sempre più frequenti, nelle quali viene riscontrata una modalità particolarmente grave della violenza sessuale.
La violenza sessuale di gruppo consiste, dunque, nella partecipazione, da parte di più persone riunite, ad atti di violenza di cui all’art. 609-bis[15]. Come emergerà dalle pagine che seguono, la sua ratiosta, oltre che nel colpire questo tipo di violenza tristemente in aumento, nella sua maggiore offensività, soprattutto sotto il profilo della degradazione personale della vittima, oltre che, ovviamente, nella maggiore forza intimidatrice della condotta plurima.
La natura di tale reato è incontestabilmente di fattispecie autonoma, in quanto una delle ratioprincipali della riforma era togliere l’ipotesi di violenza sessuale di gruppo dalle circostanze aggravanti, dove rischiava spesso la disapplicazione a seguito del giudizio di bilanciamento con le attenuanti, ed elevarla a reato autonomo, in grado di colpire detto fenomeno con maggior forza.
Considerando il ruolo assegnato al soggetto attivo, la pericolosità delle azioni di gruppo viene fortemente accentuata dal fatto che queste possono influire sulle capacità criminali dei singoli individui coinvolti nel reato, poiché questi avvertono una maggiore protezione, soprattutto sotto il profilo psicologico. Per quanto attiene al ruolo riconosciuto al soggetto passivo, non possiamo non tenere conto della notevole gravità insita nella violenza di gruppo, proprio a causa della presenza di una pluralità di persone riunite. In effetti, tale circostanza limita le possibilità di difendersi e di resistere alla condotta violenta, aumentando il rischio di una lesione ripetuta o, comunque, più intensa e profonda della libertà sessuale.
Come si chiarirà nel prosieguo, la consumazione del delitto di violenza sessuale di gruppo non può essere considerata come un’ipotesi generica di concorso di persone nel reato, in quanto presenta delle caratteristiche specifiche; in tal senso, si anticipa, come la Corte di Cassazione sia intervenuta a tal riguardo, sostenendo che “la commissione di atti di violenza sessuale di gruppo si distingue dal concorso di persone nel reato di violenza sessuale perché non è sufficiente, ai fini della sua configurabilità, l’accordo della volontà dei compartecipi, ma è necessaria la simultanea, effettiva presenza dei correi nel luogo e nel momento della consumazione del reato, in un rapporto causale inequivocabili”[16]. Ne deriva che, a seguito dell’avvenuta introduzione della fattispecie in questione, il concorso eventuale nel delitto di violenza sessuale è divenuto configurabile solo nelle forme dell’istigazione, del consiglio, dell’aiuto o dell’agevolazione da parte di chi non partecipi materialmente all’esecuzione della condotta illecita.
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1.     2.L’elemento oggettivo del reato: la condotta materiale e le modalità commissive.
L’analisi della condotta materiale del reato in esame presuppone, anzitutto, la chiara conoscenza della medesima in ordine alla (generica) fattispecie di violenza sessuale, che sussiste, come noto, qualora intervenga qualsiasi forma di costringimento psico-fisico, purché incida sull’altrui libertà di autodeterminazione.  Integra, infatti, il delitto di violenza sessuale non solo la violenza che pone la vittima nell’impossibilità di opporre tutta la resistenza possibile, determinando un vero e proprio costringimento fisico, ma anche quella che si manifesta con il compimento di atti idonei a superare la volontà contraria della persona offesa, soprattutto se la condotta criminosa si esplica in un contesto ambientale tale da vanificare ogni possibile reazione del soggetto passivo. L’elemento oggettivo del delitto di violenza sessuale consiste, quindi, sia nella violenza fisica in senso stretto, sia nella intimidazione psicologica capace di provocare la coazione della vittima a subire gli atti sessuali, sia anche nel compimento di atti di libidine subdoli e repentini, realizzati senza accertarsi del consenso della persona destinataria o, comunque, prevedendone la manifestazione di dissenso.  Per concludere, secondo un ulteriore insegnamento della Suprema Corte[17], “La nozione di violenza […] non è limitata alla esplicazione di energia fisica, direttamente posta in essere verso la persona offesa, ma comprende qualsiasi atto o fatto cui consegua la limitazione della libertà del soggetto passivo, così costretto a subire atti sessuali contro la sua volontà. Per questa ragione, l’assenza di segni di violenza fisica o di lesioni sulla vittima non può escludere la configurabilità del delitto di violenza sessuale, in primo luogo, perché il dissenso della persona offesa può essere desunto da molteplici fattori, in secondo luogo, perché la costrizione ad un consenso viziato è sufficiente ad integrare tale fattispecie”.
Poste tali preliminari considerazioni, e venendo quindi alla fattispecie criminale che interessa più da vicino il presente lavoro, si rileva che la violenza sessuale di gruppo, trattandosi di una fattispecie incriminatrice autonoma a carattere necessariamente plurisoggettivo proprio, per la sua integrazione richiede il verificarsi di due precise circostanze. In particolare, ci si riferisce al fatto che debba essere presente “l’accordo delle volontà dei compartecipi” e la loro presenza, da constatare in base alle condizioni sopra menzionate, senza che ciò comporti anche la necessità che ciascun compartecipe ponga in essere un’attività tipica di violenza sessuale, né che realizzi interamente il fatto illecito nel concorso contestuale dell’altro o degli altri correi.
La tipicità della fattispecie penale in commento deve rinvenirsi, infatti, nella circostanza secondo cui il singolo può compiere soltanto una porzione della condotta tipica, quindi, la violenza e la minaccia possono provenire anche da uno solo degli agenti.
Il delitto in esame può quindi essere commesso da chiunque, essendo soltanto necessario che sia posto in essere da più di un soggetto agente, risultando di fatto un reato, come detto, necessariamente soggettivo proprio.
Si tratta, dunque, dell’unica ipotesi prevista dal legislatore nella quale il fatto commesso da più soggetti costituisce ipotesi autonoma rispetto al reato base, poiché solitamente la pluralità di agenti costituisce ipotesi che impone un aggravamento della pena prevista per il reato base. Si discute di un numero di partecipanti, giacché nel codice penale è utilizzato il termine “gruppo”, senza tuttavia fornirne una concreta definizione, restando così affidata all’interprete l’individuazione dell’elemento che costituisce il carattere distintivo di tale fattispecie di reato.
Affinché possa configurarsi il delitto, è sufficiente che  “i partecipi dell’azione criminosa non siano presenti, contestualmente, al compimento degli atti sessuali, da parte dei componenti del gruppo, ma lo siano stati nella fase iniziale della violenza e siano tuttora presenti nel luogo dei fatti, permanendo, in questo caso, l’effetto intimidatorio derivante dalla consapevolezza, da parte della vittima, di essere in balia di un gruppo di persone con accrescimento, quindi, del suo stato di prostrazione ed ulteriore diminuzione delle possibilità di difendersi e di sottrarsi alla violenza[18].
A ciò si aggiungano ulteriori considerazioni. L’art. 609octies c.p.prevede infatti la necessaria riunione di più persone che partecipano alla commissione del fatto. Tuttavia, ai fini della qualificazione di tale attività illecita, non è richiesto che tutti i componenti del gruppo compiano atti di violenza sessuale, essendo sufficiente il mero contributo causale da parte dei compartecipi. 
Il singolo, infatti, può realizzare anche soltanto una frazione del fatto tipico, ovvero concorrere solo moralmente alla commissione del fatto, a patto, dunque, che fornisca un contributo casuale alla realizzazione della fattispecie criminale.
Come già accennato, non è neppure necessario che il “gruppo”, nel suo insieme, assista alla consumazione degli atti di violenza sessuale, essendo sufficiente la loro presenza nel luogo e nel momento in cui suddetti atti vengono compiuti, anche da uno solo dei compartecipi, atteso che la determinazione di quest’ultimo viene rafforzata dalla consapevolezza della presenza del gruppo stesso.
Ciò che si intende sottolineare è che con l’espressione “più persone riunite”, utilizzata dal legislatore, vi è una circoscrizione del campo di operatività della norma alla situazione che si realizza quando i partecipanti sono tutti presenti nel momento e nel luogo di esecuzione del reato.  
Per concludere, possiamo ritenere che la qualità di concorrente possa essere attribuita a colui che, nella fase preparatoria oppure esecutiva, ha fornito un contribuito, morale o materiale, tale da identificare una conditio sine qua non del reato, oppure un contributo, morale o materiale, tale da agevolare o facilitare la consumazione della condotta vietata. Dunque: ai sensi dell’articolo 609octiesc.p., l’elemento di differenziazione riguarda la simultanea ed effettiva presenza dei correi nel luogo e nel momento della realizzazione del delitto di violenza sessuale di gruppo.
Il delitto si consuma nel momento e nel luogo di partecipazione, da parte di più persone riunite, ad atti di violenza sessuale di cui all’art. 609-bisc.p. 
Il tentativo è ammissibile, ben potendo essere compiuti dal soggetto agente atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere il reato, senza l’effettiva consumazione del medesimo. In termini concreti, tuttavia, l’individuazione del confine tra delitto consumato e delitto tentato è piuttosto spinosa.  
Se dunque si ritenesse consumato il delitto solo ove tutti i partecipanti abbiano compiuto atti sessuali sulla vittima, il reato potrebbe dirsi solo tentato qualora l’ultimo componente del gruppo, per qualsiasi motivo, non riuscisse a portare a termine la sua azione delittuosa. La soluzione deve quindi rintracciarsi non nel considerare la realizzazione di tale attività criminale circoscritta, in modo forzoso, nell’ambito di un quadro unitario, ma di valutare le singole condotte che compongono l’attività medesima, cosicché in caso di interruzione della condotta seriale da parte del “gruppo”, il concorrente che compiuto gli atti sessuali sarà chiamato a rispondere del reato di violenza sessuale consumato, laddove, invece, coloro che non hanno realizzato gli atti sessuali risponderanno soltanto del delitto informa tentata[19].  
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3. L’elemento soggettivo del reato: il dolo generico.
Ai fini della configurabilità del delitto di violenza sessuale si reputa sufficiente il dolo generico[20], consistente nella coscienza e volontà di compiere un atto invasivo e lesivo della libertà sessuale della vittima non consenziente[21]. A tal proposito, si evidenzia, in termini concreti, il principio secondo cui l’abbassamento delle difese da parte della vittima di violenza sessuale che, temendo per la vita o la propria incolumità fisica, finisce per accedere senza apparenti reazioni di contrasto alle violenze a suo danno, non vale in alcun modo ad elidere la violenza o ad alimentare dubbi circa la sussistenza dell'elemento soggettivo in capo ai rei. Il dolo, nello specifico, non può in tali casi essere escluso per il solo fatto della mancata reazione della vittima, la quale non può essere elemento indiziante della volontà della persona offesa di essere destinataria della condotta violenta a fine sessuale.
Il dolo generico, dunque, costituisce l’elemento soggettivo sufficiente per la sussistenza del reato; l’intenzionalità dell’atto deve tuttavia essere accertata ogni volta in relazione alla particolarità della condotta, non potendo essere sempre presunta, talché risulta fondamentale, ai fini delle indagini per l’accertamento del reato di cui all’art. 609-bisc.p., l’accertamento della premeditazione del soggetto agente.
Ovviamente, la volontà di commettere l’attività delittuosa deve riguardare tutti i partecipanti all’azione criminosa[22].
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4. La disciplina circostanziale
Con riferimento alla disciplina circostanziale, si rammenta come l’art. 609 octiesc.p., terzo e quarto comma, disponga “La pena è aumentata se concorre taluna delle circostanze aggravanti previste dall’art. 609 ter. 
La pena è diminuita per il partecipante la cui opera abbia avuto una minima importanza nella preparazione o nell’esecuzione del reato. 
La pena è altresì diminuita per chi sia stato determinato a commettere il reato quando concorrono le condizioni stabilite dai numeri 3) e 4) del primo comma e dal comma terzo dell’articolo 112.”  
Posto, dunque, che, per quanto concerne le circostanze aggravanti, l’intenzione legislativa è chiara nel rinviare a quanto già disposto in materia di violenza sessuale[23], è bene soffermare l’attenzione in relazione alle circostanze attenuanti previste dalla norma in esame, principiando da quella  di cui al terzo comma, che risulta valida sia nel caso in cui il contributo di minima importanza sia stato prestato durante la fase preparatoria, sia laddove sia stato realizzato durante la fase esecutiva dell’illecito. In questa ipotesi specifica, si ritiene che il significato dell’espressione “minima importanza” deve essere rapportato alla misura di convinzione e motivazione del partecipe tenendo conto di alcuni passaggi dei lavori preparatori, nei quali si legge che: “non è infrequente, nel caso di violenza sessuale di gruppo, che essa sia il frutto della ideazione ed esecuzione materiale di un leader negativo, che trascini con sé nella scellerata bravata ragazzi molto giovani, da lui influenzati e dominati, che null’altro ruolo talora svolgono se non quello di ammirati passivi spettatori”; ancora, nelle numerose pagine dei lavori preparatori viene sottolineato che l’articolo 609octies, quarto comma c.p., “tende a salvaguardare la possibilità di applicare delle attenuanti alle persone che per le loro condizioni di debolezza possono dirsi siano state in qualche modo trascinate a commettere il reato».
La circostanza attenuante prevista nei confronti di coloro che, pur avendo partecipato, siano stati determinati a commettere il reato, nel caso in cui concorrano le ipotesi delineate nei nn. 3 e 4 del primo comma e nel terzo comma dell’articolo 112 c.p., ha per fondamento la valutazione della condizione personale di minore resistenza psichica in cui versa il compartecipe.
Nello specifico, le situazioni richiamate dall’articolo 609octies del codice penale si riferiscono, in primo luogo, alla condizione di colui che sia stato determinato all’azione, per iniziativa di una persona che eserciti su di lui un’autorità, direzione o vigilanza; in secondo luogo, alla condizione di colui che non ha ancora raggiunto la maggiore età ovvero risulta affetto da infermità o deficienza mentale; infine, alla condizione di coloro che risultano sforniti della capacità di intendere e volere. Con questa previsione normativa è stato eliminato ogni possibile dubbio circa la configurabilità del delitto di violenza sessuale di gruppo anche nella situazione in cui uno dei partecipi sia non imputabile. 
Come si può facilmente constatare, il testo dell’articolo 112 del codice penale, nelle parti che a noi interessano, non si riferisce soltanto ai rapporti di subordinazione determinati dall’esercizio di pubblici uffici o funzioni, perché considera anche quelli prodotti da ogni forma di soggezione di natura privata, oppure nascenti da legami familiari. Per concludere il nostro discorso si rende opportuna un’ultima precisazione: nell’ipotesi in cui si verifichi il compimento di più atti di violenza sessuale, da parte di soggetti diversi, si realizza un unico delitto di violenza sessuale di gruppo. In tal caso, viene accolta la tesi, proposta dalla dottrina, secondo la quale si deve escludere il concorso di reati poiché i comportamenti illeciti non possono considerarsi come autonomi dal punto di vista giuridico, in quanto verrebbe disattesa l’intenzione del legislatore di condannare la maggiore pericolosità di una violenza sessuale consumata da più persone riunite.
Per quanto attiene al delitto di violenza sessuale di gruppo, allorché gli atti sessuali non vengano posti in essere in un unico contesto temporale, ma intercorre un apprezzabile periodo di tempo fra i vari episodi, ciascuno dei quali caratterizzato dalla ripresa dell’azione violenta in danno della vittima, viene in tal modo a configurarsi una censura tra i singoli fatti, ognuno dei quali costituente reato, con conseguente ravvisabilità del vincolo di continuazione.
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5. Il discrimine tra la violenza sessuale di gruppo ed il concorso di persone. 
Il legislatore del 1996, pur avendo avuto l’indubbio merito di aver collocato i delitti di violenza sessuale tra i reati contro la libertà personale, ha lasciato all’interprete la soluzione di numerose questioni ermeneutiche e di problemi inerenti il coordinamento tra le singole norme.
Tra queste, particolare riferimento merita il confronto tra l’art.609-bise l’art.609-octies, disciplinanti rispettivamente il delitto di violenza sessuale e quello di violenza sessuale di gruppo.
L’analisi di queste fattispecie ha spinto alcuni autori a restringere l’ambito di applicabilità della disciplina del concorso di persone nel reato di violenza sessuale.
Si è infatti da più parti sostenuto, agli albori della riforma, che l’esecuzione da parte di due o più soggetti degli atti di violenza sessuale previsti dall'art. 609-bisc.p. equivarrebbe automaticamente a configurare il delitto contenuto nell'art.609-octies.
In altri termini, il legislatore nell’art.609-bisavrebbe coniato una fattispecie "naturalmente" monosoggettiva, incriminandone la manifestazione concorsuale nella violenza sessuale di gruppo.
Saremmo quindi di fronte ad una deroga a quel fenomeno migratorio dell’art.110 c.p. idoneo a riformulare, a seguito della combinazione con esse, le fattispecie incriminatrici da monosoggettive in plurisoggettive.
Tale assunto non è stato condiviso dalla prevalente giurisprudenza già in punto di merito, ma sono ormai numerose le pronunce di legittimità che rinforzano tale avverso indirizzo[24].
L’art.609-bisincrimina chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno oppure induce determinati soggetti a compiere o a subire atti sessuali.
La violenza sessuale di gruppo consiste, invece, come già in precedenza riferito, nella partecipazione di più persone riunite ad atti di violenza sessuale (art.609-octies).
Riformulando il descritto art. 609-bisin fattispecie plurisoggettiva eventuale si è sostenuto che esso opera su piani applicativi distinti dalla violenza sessuale di gruppo, idonei a garantirgli un’autonoma disciplina.
Difatti, applicando i principi generali in materia di concorso di persone nel reato, si può affermare che ai fini della commissione del delitto in esame, non è necessario il previo accordo; occorre, tuttavia, la consapevolezza di agire in uno con la condotta altrui.
Il Supremo Collegio[25]non ha mancato di evidenziare che in tali casi le condotte dei concorrenti, pur specificamente dirette alla lesione del medesimo bene giuridico, possono essere, sotto il profilo esecutivo, autonome ed indipendenti l’una dall’altra e, conseguentemente, soltanto un concreto accertamento dell’animuspuò permettere di distinguere i casi di violenza sessuale imputabili singolarmente a ciascun autore, dall’effettiva commissione di tale reato in concorso tra loro.
L'art.609-octiesè, invece, reato plurisoggettivo necessario cd. proprio in quanto è prevista l’incriminazione di ogni partecipante al gruppo.
In essa è necessario un previo accordo, oppure un programma con una concreta divisione dei compiti, o, addirittura, una vera e propria organizzazione nell’esecuzione dell’atto sessuale.
I giudici di legittimità[26], pur non trascurando nella loro analisi alcuna di dette pronunce, hanno sottolineato che il discrimentra il delitto di concorso in violenza sessuale e ed il reato di violenza sessuale di gruppo è dato proprio dalle modalità esecutive e dal rapporto tra le singole condotte di partecipazione.
Mentre nell’art.609-bisc.p. in concorso le condotte sarebbero autonome l’una dall’altra, seppur realizzate in un rapporto di contestualità spazio - temporale e vincolate dal nesso di agevolazione - sollecitazione, nella violenza sessuale di gruppo è necessario che ogni condotta sia strettamente collegata a quella dell'altro partecipe, che l’una scaturisca dall’altra e ne sia quasi la naturale conseguenza.
In altri termini, qualora la condotta di uno dei partecipi venga a mancare, l’intera fattispecie contenuta nella norma in esame potrebbe non configurarsi.
Ciò, invece, non accadrebbe nella violenza sessuale commessa in concorso, la quale, priva di tale qualificazione, ben potrebbe essere portata a termine da uno dei concorrenti prescindendo totalmente dall’apporto altrui.
La disciplina del concorso di persone, alla quale si fa riferimento in quanto compatibile anche nell’art.609-octies, non punisce la sola condotta realizzativa dell’evento criminoso, ma tutte quelle, materiali o morali, che da un’analisi ex postdel fatto tipico, si rivelano avvinte ad esso da nesso di causalità agevolatore o di rinforzo.
Non è necessario che tutti i correi realizzino materialmente l’evento o l’offesa descritta nella fattispecie incriminatrice, essendo la ratiosottesa all’istituto del concorso eventuale ed ai reati a concorso necessario, la punizione di tutte quelle condotte atipiche che "accedono" alla condotta principale o tutte quelle che, legate reciprocamente e diventando a loro volta tipiche, permettono la realizzazione dell'evento criminoso.
Conseguentemente, anche le condotte causalmente idonee a permettere la commissione di atti di violenza sessuale, seppur non sfocianti essi stessi in tali atti, potranno essere incriminate exartt.110-609-biso 609-octies c.p.
La differenziazione del loro reale disvalore penale, qualora sia ravvisabile, sarà effettuata dal giudice, in ossequio al modello unitario del concorso di persone sposato dal nostro ordinamento, in sede di applicazione delle circostanze e/o di commisurazione della pena, e potrà legittimarlo alla qualificazione delle partecipazioni rispettivamente come di minore gravità o di minima importanza ai sensi degli artt. 609-bise 609-octiesultimi commi.





TERZO CAPITOLO
I recenti orientamenti della giurisprudenza di legittimità
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1.    La violenza sessuale mediante abuso delle condizioni d’inferiorità psichica della vittima commessa dal gruppo.
Nel nostro ordinamento non è prevista l’ipotesi di violenza sessuale presunta - ad eccezione dei casi previsti dall’art. 609-quaterc.p., e tale circostanza si pone a presidio della libertà sessuale interpretata come bene individuale ed, in tal senso, pare richiamarsi anche la trasformazione in autonoma fattispecie di reato a concorso necessario della “violenza sessuale di gruppo”.
La presenza simultanea di più persone nella fase di esecuzione del reato determina, infatti, un potenziamento del disvalore dell’azione - che di per sé è identica a quella descritta nell'art. 609-bis c.p. nel caso di esecuzione monosoggetiva del reato -, poiché l’interazione delle condotte dei compartecipi riduce, di regola, le capacità di difesa della vittima che, in balia dei suoi aggressori, è costretta a subire il più alto livello di umiliazione.
La valorizzazione, dunque, dello stato in cui la vittima viene a trovarsi nel momento in cui subisce l’atto sessuale, ha portato, nel tempo, la giurisprudenza ad affermare che l’atto sessuale sia il frutto di una determinazione non libera della parte offesa, non soltanto quando questa sia stata privata di ogni possibilità di scelta alternativa, ma anche quando il rapporto sessuale sia l’effetto di un consenso viziato, la cui sussistenza va accertata esaminando il complesso delle circostanze di fatto, in special modo quando l’abuso sessuale abbia luogo in situazioni nelle quali incidano fattori ambientali. Non si è in presenza di valido consenso al compimento degli atti sessuali quando questi siano stati consumati approfittando della situazione di difficoltà e dello stato di diminuita resistenza rispetto ai fattori esterni in cui la vittima versava nel momento del fatto.
A tal riguardo, dunque, si intende soffermare l’attenzione su quanto affermato dalla Corte di Cassazione, Sez. III, che, con la sentenza n. 42393 del 28 settembre 2011, in un caso in cui, a parere dei giudici di legittimità, si mostrava pacifica la circostanza che la donna avesse volontariamente assunto in maniera smodata sostanze stupefacenti ed alcoliche e che, perciò, verosimilmente, versasse in uno stato d’indebolimento psichico e percettivo, i giudici del merito avrebbero dovuto sottoporre il suo racconto ad un’attenta ed approfondita verifica, così da escludere che, trovandosi la stessa in una condizione psichica alterata e distorta, il suo narrato fosse frutto di allucinazioni o visioni determinate dall'assunzione delle dette sostanze.
La pronuncia in commento coglie, con lucidità, il nodo problematico dell’accertamento giudiziale nei casi di violenza sessuale commessa in danno di soggetti che versino, al momento del fatto, in uno stato di alterazione psico-fisica, del quale l’autore del reato, consapevole di tale minorazione, abbia approfittato per indurli a compiere atti sessuali, cui altrimenti non avrebbero aderito. Si affronta, infatti, la questione della difficile conciliabilità tra lo stato di 'deficienza' psichica della persona vittima del reato con le esigenze processuali di un racconto genuino della vicenda, che sia in grado di sostenere il peso probatorio di una pronuncia di colpevolezza dell’imputato con assoluta certezza.
Si è quindi sottolineata, in situazioni del genere, la necessità di effettuare un’approfondita analisi di tutte le circostanze del caso concreto, per accertare, in primo luogo, la sussistenza di un’effettiva condizione di inferiorità psichica o fisica del soggetto passivo, tale da escludere o comunque limitare la capacità del soggetto medesimo di autodeterminazione in campo sessuale; la consapevolezza di tale stato da parte del soggetto attivo; l’abuso delle richiamate condizioni di inferiorità fisica o psichica ed un'attività di induzione nei confronti del soggetto passivo diretta a fargli subire o compiere gli atti sessuali[27].
In particolare la Suprema Corte, allo scopo di fornire gli strumenti per un’uniforme applicazione della norma di cui all’art. 609-bis, comma 2, n. 1 c.p., ha enunciato i seguenti principi:
-       ai sensi della norma in parola sono punite soltanto le condotte consistenti nell'induzione all’atto sessuale mediante abuso delle condizioni di inferiorità psico-fisica della persona offesa;
-       l’induzione si realizza quando, con un’opera di persuasione spesso sottile o subdola, l’agente convince il partnera sottostare ad atti che diversamente non avrebbe compiuto, sfruttando in tal modo le condizioni di minorata capacità di resistenza o di comprensione della natura dell’atto da parte del soggetto passivo[28];
-       l’abuso si verifica, invece, quando le condizioni di menomazione sono strumentalizzate per accedere alla sfera intima della persona che, versando in situazione di difficoltà, viene ad essere ridotta al rango di un mezzo per il soddisfacimento della sessualità altrui.
Occorre da parte dell’agente la consapevolezza non soltanto delle minorate condizioni del soggetto passivo, ma anche di abusarne per fini sessuali.
Alla luce delle considerazioni che precedono, pare ragionevole affermare che se si deve fortemente dubitare della liceità degli atti sessuali compiuti con o su persona che, in concreto, al momento del loro venire in essere, non sia in grado di disporre compiutamente della propria capacità di autodeterminazione, in ragione di un transitorio stato di ottundimento delle facoltà percettive ed inibitorie, non è consentito tuttavia prescindere dalle regole e dalle ragioni di un accertamento rigoroso del fatto medesimo. E ciò, pur quando si debba pervenire a tanto, affidandosi al racconto della sola parte offesa, la cui testimonianza deve essere, quindi, valutata con estremo rigore ed oculatezza, non solo sulla base della sua credibilità soggettiva ed oggettiva, ma anche in relazione agli altri elementi emergenti dalle risultanze processuali.
Nei casi di violenza sessuale commessa mediante abuso delle condizioni psichiche alterate della vittima - tanto più se ad opera di un gruppo – l’attenzione deve, dunque, necessariamente soffermarsi sul giudizio di credibilità della parte offesa, costituente, spesso, l’unica fonte del convincimento del giudice.
La giurisprudenza di legittimità[29]è concorde nell’affermare che le dichiarazioni della vittima del reato, anche se costituita parte civile, ove ritenute credibili, ben possono costituire una fonte di prova sulla quale fondare l’affermazione di colpevolezza dell’imputato; a condizione, però, che il giudice di merito fornisca una spiegazione plausibile della sua analisi probatoria circa la credibilità soggettiva del dichiarante e l’attendibilità del racconto nel suo complesso; e ciò in particolare per i reati sessuali, ove l’accertamento dei fatti contestati passa attraverso l’imprescindibile soluzione del contrasto delle opposte versioni rese dall’imputato e dalla parte offesa, unici protagonisti dei fatti e, non di rado, anche in assenza di riscontri oggettivi o di altri elementi atti ad attribuire maggiore verisimiglianza, all’una o all’altra tesi.
Tuttavia, pare opportuno richiamare il principio di presunzione di attendibilità del testimone, pur se parte offesa, per cui il teste, fino a prova contraria, dica il vero e che, perciò, sia tenuto a verificare soltanto se sussista o meno incompatibilità tra quello che il teste riporta come vero e quello che emerge da altre fonti di prova di pari valore; non quindi con il racconto dell’imputato. Poiché, tuttavia, la persona offesa (tanto più se costituita parte civile) è portatrice nel processo penale di un interesse personale, confliggente con quello dell’imputato, il giudice ha l’obbligo di procedere con una cautela ed un rigore particolari nella valutazione della sua testimonianza, tanto più in una materia come la violenza sessuale, nella quale è possibile un uso ricattatorio della denuncia penale.
La testimonianza della persona offesa vittima di reati sessuali è, perciò, prova piena e non semplice indizio, e non ha bisogno di quei riscontri esterni richiesti dall'art. 192, commi 3 e 4, c.p.p. per conferire attendibilità alle dichiarazioni rese dal coimputato o da imputato in processo connesso o collegato. Ciò, tuttavia, a condizione che sia rigorosamente valutata secondo i criteri che fanno riferimento sia all’attendibilità soggettiva del teste, desunta dalle sue caratteristiche personali, morali e intellettive e dall'assenza di motivi di rancore o di astio verso l’imputato[30], sia all’attendibilità oggettiva del racconto, ricavabile dalla sua genesi spontanea, dalla coerenza interna e dalla sua concordanza con altri elementi fattuali acquisiti al processo e quindi secondo le massime della analiticità, coerenza logica, costanza e verosimiglianza del racconto.
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2. Violenza sessuale di gruppo perpetrata da minorenni insensibili a processi educativi e sistema delle misure cautelari minorili.
Di seguito, si intende porre l’attenzione su un tema di stretta attualità attinente al reato di violenza di gruppo posto in essere da soggetti minorenni “insensibili a processi educativi”. Nell’ordinanza in commento, il Tribunale per i Minorenni dell’Abruzzo ha confermato i provvedimenti irrogativi della custodia cautelare nei confronti di imputati minorenni gravemente indiziati dei reati di cui agli artt. 609 octiese 605 c.p, in particolare relativi:
- all’applicabilità della misura cautelare custodiale in caso di condotte definibili «atti di libidine violenta»;
- alla rilevanza dell’attenuante della minore età, al fine del calcolo dei limiti edittali, per l'applicazione della misura cautelare custodiale;
- ai rapporti tra incensuratezza dell’indagato e il giudizio di non sospendibilità della pena;
- all’interferenza tra le esigenze cautelari e le contrapposte esigenze di non interrompere i processi educativi in atto.
Il peculiare sistema cautelare minorile si caratterizza, rispetto all’omologo relativo ai maggiorenni, per il limitato numero delle misure astrattamente applicabili, per la totale facoltatività nell'applicazione delle stesse e per la residualità della misura cautelare in carcere (e in genere di tutte le misure cautelari), in conseguenza dell’innalzamento del limite di pena edittale; a ciò si aggiunga la commistione tra finalità processuali e considerazioni educative, il che incide sia in fase di scelta tra misure praticabili, sia in fase esecutiva, nel peculiare contesto, del processo penale minorile tendente al pieno recupero sociale degli imputati[31].
È proprio del settore minorile, infine, il principio di «personalizzazione», o «adeguatezza», scaturente dalla connessione tra esigenze cautelari ed esigenze educative, il quale impone - quale criterio guida della valutazione del giudice – un’accentuata attenzione alle caratteristiche del destinatario, nelle sue caratteristiche individuali e quale soggetto in evoluzione.
Al fine di avvicinare gli specifici quesiti posti all’attenzione dalla ordinanza in esame è opportuno proseguire nella trattazione generale, mediante l’individuazione dei presupposti delle misure cautelari minorili.
Con particolare riferimento alla custodia cautelare, essa è consentita,in primis, in relazione a delitti non colposi sanzionati dall’ergastolo e dalla reclusione non inferiore nel massimo a nove anni ed in altri specifici casi disposti dalla legge.
Con riguardo alfumus commisi delicti, in mancanza di norma espressa, in ambito minorile opera il rinvio alla disciplina prevista dall’art. 273 c.p.p., in base al quale per l’applicazione di qualsivoglia misura cautelare occorre che sussistano gravi indizi di colpevolezza, ossia l’altissima probabilità che l’indagato o imputato possa essere riconosciuto colpevole; altrimenti, la misura cautelare, per il suo predominante significato rieducativo, sarebbe viziata da illegittimità costituzionale.
Per il fumus commissi delicti, la disciplina generale in tema di pericula libertatis, prevista dall’art. 274 c.p.p. trova applicazione anche in ambito minorile, pur in mancanza di un espresso richiamo, sicché anche qui occorre che sussistano esigenze processuali, probatorie o di tutela della collettività; diversamente le misure cautelari, assumendo una funzione educativa, si porrebbero in contrasto con il principio di non colpevolezza.
Una delle questioni strettamente processuali affrontate nell’ordinanza in commento riguarda l’astratta applicabilità della misura cautelare più grave in presenza delle condotte attribuite agli indagati (costringimento alla masturbazione; toccamenti nelle parti intime).
In particolare la difesa degli indagati aveva evidenziato:
- che la condotta realizzata doveva qualificarsi alla stregua di «atti di libidine violenta» e non di violenza carnale, sicché non poteva applicarsi il titolo speciale di cui all'art. 23 d.P.R. n. 448;
- che in ogni caso il più grave reato di violenza sessuale di gruppo (art. 609 octiesc.p.) non sarebbe punibile con la reclusione non inferiore a 9 anni, considerata la riduzione per la diminuente della minore età e quindi non operasse neanche il limite edittale generale di cui all'art. 23 d.P.R. n. 448.
Il Tribunale ha rigettato le eccezioni evidenziando:
- che la condotta posta in essere dagli indagati rientra pienamente nel concetto di violenza sessuale, tenuto conto che tra le condotte oggetto delle accuse era menzionato anche il costringimento della vittima a subire coiti orali;
- che in ogni caso la distinzione tra violenza carnale e atti di libidine violenti, ancora valida all’epoca della approvazione del d.P.R. n. 448, è stata abolita dalla l. 15 febbraio 1996, n. 66 la quale nel delineare la nuova figura criminosa della violenza sessuale (art. 609-bis c.p.) ha sanzionato ogni condotta comprensiva sia della violenza carnale sia degli atti di libidine violenti;
- che il reato di cui all’art. 609-octiesc.p. contempla la pena della reclusione da sei a dodici a anni, la quale non può essere ridotta a otto anni, exart. 98 c.p., tenuto conto che “agli effetti dell'applicazione delle misure cautelari si ha riguardo alla pena stabilita dalla legge per ciascun reato consumato o tentato; non si tiene conto delle circostanze del reato, fatta eccezione dell'attenuante prevista dall'art. 62 n. 4 c.p.” (art. 278 c.p.p.).
La prima argomentazione appare concludente e decisiva. Benché l’atto sessuale «coito orale», non sia menzionato espressamente nella imputazione, dove si parla genericamente di «masturbazione alla quale è stata costretta la minore», tuttavia esso è desumibile dalla narrazione in fatto e tale condotta, per le sue caratteristiche, rientra con certezza nel concetto di violenza carnale di cui all'art. 23 d.P.R. n. 448, secondo il significato di «atto sessuale penetrativo» desumibile dall'art. 519 c.p. abrogato a cui quella norma faceva senza dubbio riferimento.
Si devono approfondire invece le altre argomentazioni.
Si rileva infatti come l’ordinanza esclude nel caso di specie la violazione dell’art. 275 comma 2 bisc.p.p. (secondo cui non può essere disposta la misura della custodia cautelare se il giudice ritiene che con la sentenza possa essere concessa la sospensione condizionale della pena), per apparire gli indagati, benché incensurati, “immeritevoli di qualsiasi beneficio per l’oggettiva gravità del fatto, per il numero degli autori del reato e per l’intensità delle violenze [...] per la mancanza di qualsiasi resipiscenza, [...] per l’allarme sociale da essi suscitato nella collettività, per la risonanza mediatica di tali eventi, per la giovane età della vittima (appena quattordicenne), e per le sue condizioni di minorata difesa”.
In effetti, l’incensuratezza di per sé non impedisce una prognosi negativa in merito alla sospendibilità della pena. E’ vero che l’assenza di precedenti penali costituisce un elemento di indubbia valenza positiva e di per sé sola potrebbe giustificare il giudizio prognostico favorevole circa la futura astensione dell'autore del reato da ulteriori reati; tuttavia il giudice potrebbe correttamente denegare il beneficio in presenza di uno o più elementi di segno contrario, all’uopo valutando fatti e la personalità dell’indagato secondo i criteri di cui all'art. 133 c.p. e facendo riferimento ai limiti di cui agli artt. 163 e 164 c.p.p.; infatti la norma di cui all’art. 275 comma 2 bis c.p.p. impone al giudice di compiere un giudizio prognostico sulla base di quei parametri.
Pertanto, in presenza di reati a pena edittale elevata, di modalità del fatto particolarmente odiose, e di una personalità non resipiscente, insensibile anche dopo il reato ai valori del consesso civile, correttamente si è ritenuto che l'assenza di precedenti penali non provasse altro se non la mancanza di pregresse occasioni a delinquere, e comunque non escludesse la tendenza futura alla reiterazione del delitto.
Particolarmente interessante appare quel passo dell’ordinanza de quain cui il tribunale ha escluso la nullità dei provvedimenti impugnati per violazione del criterio di cui all'art. 19 comma 2 d.P.R. n. 448 (non aver considerato l'esigenza di «non interrompere i processi educativi in atto»), proprio in quanto gli imputati non avevano alcun serio processo educativo in atto; si legge infatti che “gli indagati frequentavano la scuola senza profitto, facevano numerose assenze, avevano collezionato molte note disciplinari, erano stati sospesi dalle lezioni per il loro comportamento diffusamente e continuamente irrispettoso dei doveri scolastici e per essersi ripetutamente allontanati dalla classe nonostante l'esplicito divieto dei docenti e i numerosi richiami agli insegnanti non avevano ottenuto miglioramenti”.
Inoltre, nel momento stesso in cui si afferma che “il consentire che i minori tornino a scuola, sia pure con l'imposizione delle doverose prescrizioni, [...] getterebbe nel panico la parte offesa e tutte le minori che frequentano l'istituto, che vivono in condizione di terrore alla vista del solito gruppo” il Tribunale considera dunque prevalenti le esigenze di tutela della collettività rispetto a quelle educative degli indagati. Invero, il profilo della modulazione delle esigenze cautelari con quello delle esigenze educative costituisce una rilevante novità della legislazione processuale minorile del 1988, che in ciò si qualifica rispetto alla normativa comune, improntata ai soli criteri di adeguatezza (alla natura e al grado delle esigenze cautelari da soddisfare) e di proporzionalità (all'entità del fatto e alla sanzione si ritiene possa essere irrogata), di cui all'art. 275 c.p.p.
In base a tale specifico principio, l’esigenza di non interrompere i processi educativi in atto, funge da limite e da guida nella scelta delle misure più opportune (art. 19 comma 2 d.P.R. n. 448); pertanto, in forza della necessità di raccordo tra le esigenze cautelari e le esigenze educative del minorenne, la misura de quapotrebbe essere disposta solo quando le prime risultino prevalenti e ogni altra misura appaia impraticabile.
L’ordinanza de qua, oltre ad aderire all'orientamento che sacrifica le esigenze educative a quelle cautelari, appare innovativa nel panorama giurisprudenziale per aver posto in evidenza un dato che appariva scontato e che, tuttavia, nessuno in precedenza aveva sottolineato adeguatamente; ossia che il limite in parola in tanto può operare in quanto i processi educativi siano realmente in atto e, in mancanza, il potere discrezionale del giudice non potrebbe essere ulteriormente compresso in astratto e anche l’esito della scelta tra le misure sarebbe inevitabilmente gravoso per l’incolpato, tenuto conto del fatto che chi non ha dimostrato alcuna resipiscenza né ha compreso la gravità dei fatti neanche potrebbe recepire il significato delle prescrizioni né sarebbe in grado di rispettarle.
In ragione di tutto quanto sopra detto, la vicenda in esame è stata portata all’attenzione della Suprema Corte, la quale con sentenza del 7 aprile 2006, n. 398, ha confermato in pieno la soluzione adottata dal Tribunale per i Minorenni, tra l’altro evidenziando come l'esigenza educativa debba cedere rispetto alla esigenza cautelare allorché la vittima da tutelare si trovi nello stesso contesto scolastico del reo, e soprattutto allorché la meno grave misura delle prescrizioni appaia inutile, per avere il reo dimostrato di non essere in grado di rispettarla.
Nel conflitto tra esigenze cautelari e tutela dei processi educativi, tali incertezze, una certa ideologizzazione della magistratura minorile e la spinta di un indugenzialismo penale generalizzato hanno spesso condotto alla (forzata) scoperta di «processi educativi in atto» pur in presenza di condotte denotanti l’assenza di reali esperienze educative, in modo da giustificare trattamenti cautelari blandi oppure nulli.
Nella vicenda sottoposta all’esame, invece, il giudice di merito e quello di legittimità hanno concordemente chiarito non solo che l’insussistenza di reali processi educativi, a causa del deserto educativo e pedagogico in cui venga a trovarsi il minore, non è idoneo a inibire risposte forti, per ragioni di difesa sociale; ma anche che le risposte forti possono fornire l’occasione per dare inizio ad un vero processo educativo: bene è scritto nell’ordinanza in commento, a conclusione delle argomentazioni a sostegno del rigetto delle censure difensive, che «i processi educativi possono essere attuati anche all'interno delle strutture di contenimento, nelle quali sono presenti le figure degli educatori, i quali stanno elaborando per i minori dei progetti educativi individualizzanti».
In tal senso l’ordinanza in commento, che a ben vedere si pone in latente contrasto con quella dottrina la quale esclude che le esigenze educative possano costituire ragione dell'applicazione delle misure cautelari, presenta un rigore posto nell'interesse stesso del reo minorenne, in quanto teso a fornire a questi una seria chance prima che a diciotto anni e un giorno gli si scarichi sopra tutta la severità dell'ordinamento.
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3. La violenza sessuale di gruppo: anche chi registra lo stupro compiuto da altri integra la fattispecie di cui all’art. 609-octiesc.p.
La sentenza in esame affronta il delicato problema della determinazione del contributo minimo necessario per essere ritenuto autore di tale fattispecie di reato.
Con l’ordinanza del 16 settembre 2009 il Tribunale per i Minorenni di Messina aveva respinto l’istanza di riesame e di revoca della misura cautelare del collocamento in comunità oppure, in subordine, di applicazione di misura meno afflittiva disposta il 1° settembre 2009 dal G.i.p. di Messina nei confronti di M.F., indagato in ordine al delitto di cui agli artt. 609-octies, 609-bis, comma 2, n. 1 e 609-bis, 609-ter, n. 2, c.p. nei confronti di una ragazza minorenne, con contestuale affidamento dell’indagato ai Servizi dell’Amministrazione della giustizia per la dovuta attività di sostegno e controllo.
Per quel che interessa in questa sede, con il primo motivo del ricorso da parte dell’indagato, con cui egli deduce l’illogicità della motivazione dell’ordinanza nella parte in cui viene ritenuta la sussistenza, a suo carico, in merito ai gravi indizi di colpevolezza in ordine alla sua partecipazione alla violenza sessuale di gruppo, si afferma che costui si era limitato a riprendere col telefono cellulare l’attività posta in essere dal coimputato R. e tale condotta non poteva configurare una partecipazione al reato di violenza sessuale posto in essere, in modo autonomo, dal coindagato. Era, inoltre, da escludere che con il suo comportamento egli avesse in qualche modo rafforzato o agevolato gli eventuali propositi criminosi del suddetto coimputato, come comprovato dal fatto che i filmati si riferivano esclusivamente alle fasi conclusive degli eventi.
La sentenza in esame respinge questo primo motivo, sul presupposto del fatto che era emerso dalle deposizioni dei testi che l’indagato era presente durante gli atti sessuali compiuti da R. e da altri soggetti mentre la minore si trovava in stato di incoscienza dopo essere stata costretta a bere una bevanda (in cui era stata versata della cenere) ed aveva registrato parte dell’episodio, come del resto ammesso dallo stesso indagato. Nel caso di specie, affermano i giudici, è contestato all’indagato di aver partecipato al comportamento criminoso posto in essere dal coindagato R., in quanto presente nel momento in cui quest’ultimo aveva posto in essere la violenza ed aveva fotografato la parte finale dell’episodio, sicché doveva ritenersi acclarata la sua partecipazione attiva e consapevole, non realizzatasi attraverso atti di violenza sessuale ma, comunque, in rapporto causale con quello che i coindagati stavano ponendo in essere.
Secondo i giudici, l’indagato non risultava essersi limitato ad una presenza passiva in locoma aveva dato un contributo attivo di adesione al comportamento di R. fotografando la parte finale dell'episodio.
La condotta partecipativa che imporrebbe di considerare l’indagato M.F. uno degli autori della violenza sessuale di gruppo si estrinseca, dunque, nel riprendere con il cellulare la violenza sessuale posta in essere da altri. I giudici della Suprema Corte precisano che l’indagato, con il suo comportamento, non si sarebbe limitato ad una presenza passiva in loco
E questa pare essere il nodo centrale della questione, ovvero quali sono i confini della mera presenza sul luogo del reato? La giurisprudenza della Suprema Corte[32]ritiene che la sola presenza fisica di un soggetto allo svolgimento dei fatti non assume univoca rilevanza, allorquando si mantenga in termini di mera passività o connivenza, risolvendosi, invece, in forma concreta di cooperazione delittuosa allorquando la medesima si attui in modo da realizzare un rafforzamento del proposito dell’autore materiale del reato e dell’agevolazione della sua opera, e sempreché il concorrente morale si sia rappresentato ed abbia partecipato all’evento del reato, esprimendo una volontà criminosa identica a quella dell’autore materiale. Pur ritenendo necessaria e imprescindibile la verifica dell'effettivo apporto causale dato al reato da parte del soggetto accusato di concorso, si tende, peraltro, a “saltare” questo passaggio quando si tratta di partecipazione morale. Si reputa, infatti, che “idonea ad integrare la partecipazione morale è anche la mera presenza passiva allorquando la mancata assunzione di qualsiasi iniziativa e il mantenimento di un atteggiamento di "non-intervento" esprimano una condotta obiettivamente e logicamente valutabile come adesione all'altrui azione criminosa, con il correlativo rafforzamento della volontà dell'esecutore materiale”. La Corte di Cassazione[33]sostiene, altresì, che "quando il concorso venga prospettato soltanto sotto la forma del rafforzamento dell'altrui proposito criminoso, non può pretendersi la prova positiva, obiettivamente impossibile, che senza di esso quel proposito non sarebbe stato attuato, dovendosi invece considerare sufficiente la prova dell'obiettiva idoneità, in base alle regole d'esperienza, della condotta consapevolmente posta in essere dal concorrente a produrre, sia pure in misura modesta, il suddetto rafforzamento". 
In sostanza, la semplice presenza sul luogo del reato è sufficiente ad integrare gli estremi della partecipazione criminosa, sotto forma di concorso morale, quante volte sia servita a fornire all’autore del fatto stimolo all’azione o un maggior senso di sicurezza, palesando chiara adesione alla condotta delittuosa. Problema fondamentale delle forme di concorso morale è quello relativo all’inquadramento delle stesse all’interno dello schema causale. Secondo una opinione assai diffusa[34], anche in giurisprudenza, l’identificazione delle condotte individuali di partecipazione al reato dovrebbe avvenire in base al criterio causale. Sarebbero, dunque, da considerarsi condotte di concorso tutte quelle collegate eziologicamente con il fatto di reato. Con riferimento al concorso morale, l’adozione di questo criterio comporta che, sebbene le decisioni del tipo appena menzionato si fondino su una parvenza di schema causale (ovvero l’influsso, anche modesto, sull’altrui proposito criminoso), in realtà il paradigma eziologico venga a svolgere un ruolo del tutto marginale. Invero, come già anticipato all’inizio del paragrafo, la difficoltà di ricostruire i nessi causali nei rapporti interpersonali di natura psicologica provoca il ricorso ad automatiche presunzioni probatorie e l’individuazione di requisiti sempre più ridotti sui quali basare la condotta concorsuale come "l'aver l'autore, tratto dall’altrui condotta, motivo di sicurezza o di stimolo nella realizzazione del reato". Ci si chiede se l’adozione di un criterio diverso da quello condizionalistico, potrebbe risolvere tali problematiche. Si pensi, in particolare, al criterio della strumentalità, in base al quale la condotta del singolo compartecipe sarebbe penalmente rilevante quando, dal modo stesso in cui il contributo è venuto ad inserirsi nello scenario complessivo della vicenda delittuosa, risulti il suo
carattere obiettivamente strumentale rispetto all'esecuzione dell’illecito plurisoggettivo. Invero, in questo modo, sarebbe possibile attribuire a ciascuna condotta la sua reale influenza sulla commissione del reato, superando totalmente, con riferimento alla tematica del concorso di persone, la categoria della causalità e delle contraddizioni ad essa intrinsecamente connesse.
Con specifico riferimento al rapporto tra mera presenza sul luogo del reato ed il delitto di violenza sessuale di gruppo, i giudici della Suprema Corte, nella sentenza del 7 maggio 2008, n. 34830 , hanno stabilito che: "[...] né è necessario ai fini dell'integrazione dell'art. 609-octies, che i componenti del gruppo assistano al compimento degli atti di violenza sessuale, essendo sufficiente la loro presenza nel luogo e nel momento in cui detti atti vengano compiuti, anche da uno solo dei compartecipi atteso che la determinazione di quest'ultimo viene rafforzata dalla consapevolezza della presenza del gruppo [...]". Anche nella sentenza in commento, come detto, i giudici stabiliscono che M.F. non si sarebbe limitato ad una presenza passiva in loco, ma avrebbe dato un contributo attivo di adesione al comportamento di R. fotografando la parte finale della violenza. Sembra quasi che la sola presenza di altri soggetti agevoli e rafforzi i propositi dell’esecutore materiale, senza verificare se, davvero, la condotta agevolatrice è stata tale, almeno nel senso di aver incoraggiato l'autore materiale. Non sarebbe sufficiente che la vittima si sia sentita minacciata o più minacciata dalla presenza di un secondo soggetto inerte (già sicuramente compartecipe almeno ex110 c.p.), ma occorrerà dimostrare che, con la sua condotta, tale soggetto ha contribuito effettivamente alla commissione del reato da parte del correo, e che quest’ultimo, se ne sia avvalso in qualche modo. È necessario che i due soggetti attivi abbiano inteso cooperare, come persone riunite, alla violenza sessuale di gruppo, anche perché, l’art. 609-octies c.p., prevede una cornice edittale uguale per tutti gli autori, indipendentemente dal ruolo che hanno rivestito.
Traendo le fila del discorso, dunque, nel caso di specie i giudici rinvengono il nesso causale tra la violenza posta in essere da R. e la partecipazione a tali atti da parte di M.F. nella condotta consistente nell'aver fotografato la parte finale della violenza. I giudici ritengono integrata la fattispecie della violenza sessuale di gruppo, sul presupposto della partecipazione attiva e consapevole di M.F., non realizzatasi attraverso atti tipici di violenza sessuale ma, comunque, in rapporto causale con quello che i coindagati stavano ponendo in essere, avendo fornito un contributo attivo di adesione alla condotta di R. Se il nesso che lega i contributi degli autori deve essere, come sopra specificato, inequivocabile e l’idoneità di un contributo diverso dal compimento materiale della violenza deve essere verificato, è ragionevole ritenere che chi ha filmato le fasi conclusive di una violenza sessuale posta in essere da altri possa essere ritenuto autore di una violenza sessuale di gruppo e, quindi, rischiare di soggiacere alla stessa pena di chi ha compiuto materialmente l’atto? È davvero inequivocabile il nesso causale tra la condotta di chi ha realizzato la violenza e quella di chi ne ha filmato esclusivamente le fasi finali?
Riferendosi i filmati alle fasi conclusive dello stupro, l’assunto in base al quale la condotta di M.F. sarebbe stata causalmente connessa alla violenza sessuale compiuta da R., in quanto, avrebbe agevolato e/o rafforzato i propositi criminosi di quest’ultimo (evidentemente già fortemente motivato, comunque) meritava, forse, una spiegazione più approfondita, non parendo di immediata percezione.
Non è chiaro in che modo la condotta del partecipante abbia rafforzato il proposito criminoso: in particolare nei casi di contributo morale, si rischia di dare rilievo anche a comportamenti di per sé neutri (come applaudire chi sta compiendo un reato, osservare dei rapinatori per il puro piacere di assistere ad una rapina senza prestare contributo alcuno) o che potrebbero integrare altre fattispecie di reato.
Per esempio, prima di dar vita ad una violenza sessuale di gruppo, la condotta di M.F., forse potrebbe integrare un’omissione di soccorso exart. 593, comma 2, c.p.[35], avendo egli omesso di avvisare le autorità o prestare assistenza ad una persona che versava in evidente stato di pericolo.
Inoltre, M.F. avrebbe potuto registrare la violenza altrui per denunciare solo in un secondo momento l’accaduto all’Autorità competente. Nel caso di specie, la condotta di M.F., di per sé considerata, non può automaticamente essere ritenuta causalmente determinante ai fini della violenza sessuale posta in essere dal coimputato. Ammesso che tale condotta abbia, in qualche modo, rafforzato il proposito criminoso di R., essa non ne è certamente stata condicio sine qua non, essendo intervenuta nella fase finale della violenza. L’adozione del criterio strumentale in luogo di quello condizionalistico, in questo caso, avrebbe chiarito più efficacemente il reale tipo di contributo fornito da M.F. Probabilmente, i giudici sarebbero, comunque, giunti a condannare colui che aveva registrato le parti finali della violenza sessuale posta in essere da altri quale autore del reato di cui all’art. 609-octies c.p., ma non forzando le categorie della causalità, bensì, desumendo dall'ordito complessivo della vicenda delittuosa, il carattere puramente strumentale del comportamento di colui che registra una violenza sessuale posta in essere da altri rispetto all'esecuzione della violenza stessa.
Le questioni sollevate dall’analisi della sentenza in esame hanno, principalmente, origine nel fatto che, il legislatore non ha per nulla considerato le ragioni della colpevolezza, prevedendo una cornice edittale priva di adeguati bilanciamenti attenuanti speciali. Il legislatore, infatti, si è dimostrato attento esclusivamente alle ragioni della prevenzione, soprattutto quelle della prevenzione generale. Anche la scelta di qualificare la violenza sessuale di gruppo come titolo autonomo risponde a questa logica di fondo: invero se il legislatore avesse previsto tale fattispecie a titolo di circostanza aggravante, la stessa non avrebbe potuto essere sottratta ad eventuali bilanciamenti ai sensi dell’art. 69 c.p. A ciò, infine, si aggiunga che la giurisprudenza, sembrano aver sposato tale linea di pensiero, e in virtù del generale allarme sociale che genera il reato de quo giunge, talvolta, ad emettere sentenze "eticizzanti", volte a stigmatizzare condotte individuali su un piano morale.
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4. Bullismo e violenza sessuale di gruppo 
4.1. Cenni introduttivi al fenomeno del bullismo
Il “bullismo”, come noto, è un fenomeno sociale di recente formazione che, in pochi anni, si è andato sempre più affermando e le cui problematiche di base non sono affatto facilmente individuabili.
Se da un lato, infatti, è indubbio che la società attuale sia foriera di molteplici vantaggi a favore degli individui, ponendoli sempre più al centro di svariati stimoli e sollecitazioni che permettono loro di ampliare il livello di conoscenza, costringendoli ad essere riflessivi ed a confrontarsi con situazioni diverse, dall’altro è anche vero che, oltre a questi aspetti positivi, la modernità comporta costi personali e sociali che spesso originano dalla difficoltà di orientarsi su questioni sia di grande che di piccola entità, nonché dalla difficoltà di conciliare aspettative maturate ed effettive possibilità, minando così certezze e punti di riferimento. 
Tale situazione ha pesanti ripercussioni nella vita dei giovani, i quali spesso sono alla continua ricerca di sé stessi e delle proprie capacità in un nuovo ancoraggio, rappresentato il più delle volte dal “gruppo dei pari”, cioè dei coetanei. All’interno di tali gruppi, i giovani possono sperimentare nuovi ruoli, nuove modalità relazionali, condividere valori e ricevere aiuto a livello emotivo, psicologico e comportamentale. Il termine “bullismo” designa infatti il fenomeno delle prepotenze perpetrate, nell’ambito di una classe, una scuola o di un quartiere, da alcuni ragazzi nei confronti di altri, loro vittime, e definisce un fenomeno sommerso più diffuso e cruento di quanto non si creda, un’autentica forma di oppressione in cui un bambino o un adolescente sperimenta, ad opera di un compagno prevaricatore, una condizione di profonda sofferenza, grave svalutazione della propria identità, crudele emarginazione dal gruppo. 
Si tratta di una situazione che rimane per lo più al di fuori del controllo degli adulti, che generalmente la ignorano o la sottovalutano perché abbagliati dallo stereotipo dell’età dell’“innocenza” ed impreparati a riconoscere manifestazioni così spietate di oppressione e persecuzione fra i ragazzi. Sebbene il problema delle prepotenze sia antico, solo recentemente è diventato oggetto di studio[36]. L'allarme che proviene da tutte le ricerche consiste nell’importanza di riuscire ad individuare il momento in cui un intervento è ancora possibile in modo da spezzare la perversa circolarità che sembra legare persecutori e vittime. Ricerche longitudinali hanno dimostrato, infatti, le connessioni tra episodi di bullismo in età scolare e disadattamenti nelle età successive. Un’azione di prevenzione, di contrasto alla diffusione di tale dilagante fenomeno non può dunque che richiedere adulti più consapevoli, capaci di creare un contesto relazionale ed educativo significativo.
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4.2. Violenza sessuale commessa dal gruppo di bulli 
Delineati, dunque, in termini generici, i profili del fenomeno del bullismo, ed addentrandoci quindi nel merito di quel che interessa in questa sede, si rileva come uno dei reati che viene commesso dai bulli con sempre maggiore frequenza è il reato di violenza sessuale.
Rinviando a quanto già detto in precedenza in merito agli elementi costitutivi la figura delittuosa di cui all’art. 609-octiesc.p., è bene ribadire ancora una volta come, ai fini della configurazione della fattispecie criminale in parola, con il termine “gruppo”, si rinvia alla presenza di due o più persone riunite, considerando pertanto tale circostanza già sufficiente per l’integrazione del reato. 
Venendo nello specifico alla condotta perpetrata dai bulli, sovente accade che siano persone di sesso femminile di giovanissima età ad essere vittime della violenza sessuale di gruppo, molto spesso anche all’interno di istituti scolastici.
Per altro verso, anche minori di sesso maschile sono talvolta vittime di violenza sessuale da parte del gruppo dei bulli che li costringe a compiere o subire atti sessuali, considerato che tali devono intendersi anche il palpeggiamento delle zone erogene.
Il diffondersi di atti di bullismo che vede coinvolti giovani minori di età, sia tra gli autori che fra le vittime, porta in primo piano una questione di diritto penale non nuova. Occorre infatti interrogarsi se un minore che fa il bullo con i suoi coetanei ha la maturità di comprendere il significato delle sue azioni e l’eventuale configurazione di ipotesi delittuose.
Se il bullo comprende, allora può dirsi che la normativa vigente in materia di imputabilità risulti inadeguata? A tal proposito, si rileva come taluni[37]abbiano evidenziato la necessità di una modifica legislativa finalizzata ad ottenere un abbassamento dell’età per essere ritenuti imputabili e che rifletta la precocità dello sviluppo intellettivo.
Si rammenta, infatti, come ai sensi dell’art. 85 c.p. è imputabile colui che al momento della commissione del fatto era “capace di intendere e di volere”, con ciò intendendo sia la capacità di comprendere la realtà, il significato dei propri comportamenti (capacità di intendere), sia l’attitudine del singolo ad autodeterminarsi (capacità di volere), ed una siffatta capacità si presume in colui che abbia compiuto il diciottesimo anno di età. 
La disciplina penalistica, come noto, prevede specifiche cause di esclusione quali l’infermità totale di mente, la cronica intossicazione da sostanze stupefacenti e alcoliche, nonché la minore età.
Il codice fissa dunque una diversa disciplina a seconda che l’autore sia adulto o minore, ed entro tale categoria di soggetti distingue tra coloro che hanno meno di quattordici anni, i quali non possono essere sottoposti a pena, e quelli che hanno un’età compresa tra i quattordici e i diciotto anni. L’infradiciottenne, invece, come previsto dall’art. 98 c.p. si presume non imputabile, a meno che non sia data prova che lo stesso fosse dotato di capacità di intendere e di volere al momento della commissione del fatto.
Attualmente, la giurisprudenza[38]tende a qualificare la mancanza di detta capacità all’infradiciottenne il significato del minore di non sapersi inserire e di far propri i valori dominanti. Un’incapacità che si esprime anche nella natura del reato commesso; l’immaturità, infatti, essendo basata su profili biopsichici e pedagogici. RIFORMULARE, NON E’ CHIARO.
Ciò detto, con il presente elaborato si intende analizzare un caso di violenza sessuale di gruppo ad opera di bulli, oggetto di statuizione da parte della Suprema Corte. In particolare, i giudici di legittimità, con la sentenza n. 17699, pronunciata il 21 novembre 2012 e depositata il successivo 18 aprile 2013, hanno affermato la sussistenza del reato di cui all’art. 609-octiesc.p. in un tipico caso di “bullismo sessuale”, ove è stata accertata la prevaricazione volta al compimento di atti di natura sessuali, lo stato di umiliazione in un crescendo di condotte invasive sulla persona ed offensive della sua dignità ed onore, inflitto durante il tragitto nell'autobus di linea, di ritorno da scuola. Tutto ciò mediante atti di violenzaavvenuti in rapida successione temporale all’interno dell’autobus, ove la stessa si trovava seduta.
In particolare, i giudici di merito hanno sottolineato le modalità con le quali tutti i ragazzi del gruppo avevano partecipato all’accerchiamento della ragazza ed alla successiva aggressione della sua sfera sessuale, evidenziando come, dopo averla importunata con espressioni dall’esplicito tenore sessuale, avevano cominciato a toccarla, afferrandole il braccio, mentre un soggetto del gruppo le aveva toccato i capelli e, successivamente, dopo una prima reazione della ragazza sia l’imputato che i correi glieli avevano tirati, mentre uno le toccava il collo e scommettendo su chi tra di loro per primo fosse riuscito ad avere un rapporto sessuale con lei.
Alle proteste della giovane, due dei ragazzi le infilavano le mani sotto il golfino, palpeggiandole il seno, ed alla successiva reazione della stessa, uno le si poneva addosso, seguitando a toccarla lungo il corpo fino a palpeggiare anche i glutei della vittima.
Come noto il palpeggiamento delle zone a connotazione sessuale rientra per giurisprudenza ormai indiscussa nella nozione di atto sessuale, come qualunque altro atto che coinvolga oggettivamente la corporeità sessualedella persona offesa e sia finalizzato ed idoneo a compromettere il bene primario della libertà individuale, nella prospettiva dell’autore del comportamento di soddisfare od eccitare il proprio istinto sessuale (cfr. Sez. 3, n. 11958 del 22/12/2010, C, Rv. 249746). I giudici di legittimità, dunque, proseguono rilevando che “il reato è stato perpetrato mediante una serie di comportamenti posti in essere, nella contestualità, dai quattro giovani, indipendentemente da quali di essi abbiano svolto il ruolo di esecutori materiali dei ripetuti palpeggiamenti.
Risulta evidente che anche la mera presenza fisica all'interno del "gruppo", costituisce, nel contesto dei fatti come verificatisi, quanto meno una forma di partecipazione psichica e quindi di concorso morale, assumendo il significato di vera e propria adesione all'altrui azione criminosa, con conseguente rafforzamento della volontà dell'esecutore materiale (cfr. Sez. 5, n. 2 del 22/11/1994, Sbrana e altro, Rv. 200310), in quanto nella situazione di specie, ossia la contemporanea presenza di più giovani, coesi nella consapevolezza di essere un gruppo di persone di genere maschile, ha certamente rappresentato in concreto uno stimolo ed un incentivo, oltre che una rassicurazione per gli esecutori materiale dell'aggressione sessualedella non ancora diciottenne K.M..
A maggior ragione, ai fini della sussistenza della fattispecie di cui all'art. 609 octies c.p., il concetto di partecipazione non può essere limitato nel senso di richiedere il compimento, da parte del singolo, di un'attività tipica di violenza sessuale, nel senso che ciascun compartecipe dovrebbe porre in essere, in tutto o in parte, la condotta descritta nell'art. 609 bis c.p., dovendosi, al contrario, ritenere estesa la punibilità (qualora sia comunque realizzato un fatto di violenza sessuale) a qualsiasi condotta partecipativa, tenuta in una situazione di effettiva presenza non da mero "spettatore", sia pure compiacente, sul luogo ed al momento del reato, che apporti un reale contributo materiale o morale all'azione collettiva. Peraltro, dalla ricostruzione operata dai giudici di merito il ruolo del C. risulta certamente inquadrato in quello di uno degli esecutori materiali, per cui del tutto fuori luogo l'invocata riferimento al disposto dell'art. 116 c.p., avanzato dal ricorrente con il terzo motivo di ricorso e comunque, sulla base di quanto ricostruito dai giudici di merito, le frasi e le condotte poste in essere nel non breve tragitto dell'autobus non apparivano affatto rivolte a disturbare gli altri passeggere del mezzo, ma risultavano inequivocabilmente indirizzate a molestare sessualmente la studentessa minorenne.”
Il caso giurisprudenziale qui riportato, attestante la tipicità della fattispecie criminosa in parola, contiene gli elementi essenziali del c.d. bullismo sessuale con particolare riferimento alla violenza sessuale perpetrata dal gruppo, connotando pertanto tale delitto di ulteriori profili a cui, certamente, negli anni futuri lo sguardo della dottrina e della giurisprudenza dovrà concentrarsi con sempre maggiore incisività.
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Conclusioni
Con il presente lavoro si è visto, dunque, come il delitto di violenza sessuale di gruppo, introdotto dalla l. n. 66/96, all’art. 609-octies, è il risultato di una lunga riflessione legislativa, durata quasi vent'anni, sollecitata dalla necessità di arginare l’espandersi di episodi di violenza collettiva. 
Il maggior disvalore che certamente deriva dalla simultanea presenza di più soggetti, nonché la indubbia maggior capacità criminale connessa ad una violenza di gruppo, hanno suggerito al legislatore la necessità di sottrarla alla comune disciplina del concorso di persone nel reato.
Puntualmente si è detto che il delitto in esame viene a delinearsi come un «reato collettivo, specializzato rispetto al comune concorso di persone in violenza sessuale».
La violenzadi gruppo, infatti, è definita dal legislatore come «partecipazione da parte di più persone riunite ad atti di violenza sessuale di cui all’art. 609-bis» c.p., pretendendo, dunque, una particolare modalità dell’azione collettiva, che si risolve, come detto, nella necessaria presenza delle più persone al momento e sul luogo del delitto.
Non è così difficile, allora, scorgere  la ragione del più grave trattamento sanzionatorio riservato a tali condotte partecipative, che imprimono certo un più intenso grado di lesività al fatto non solo rispetto alla maggiore capacità di intimidazione sulla vittima e al pericolo della reiterazione di atti di violenza sessuale, ma già riguardo allo stesso ineliminabile contenuto della libertà sessuale, che non consiste solo nel disporre materialmente del proprio corpo, ma nel potersi determinare liberamente rispetto a qualunque atteggiamento della propria sensibilità sessuale.
In questa prospettiva, la violenza di grupporappresenta allora già una interessante deviazione rispetto al modello unitario di concorso accolto nel nostro ordinamento, che risolvendosi nella tipicizzazione causale delle condotte partecipative, non opera, almeno sul piano astratto, alcuna differenza sanzionatoria con riguardo al ruolo assunto dal concorrente.
Il legislatore della riforma, mostra, invece, in tale ipotesi di riconoscere un nuovo contenuto di illiceità che sembra voler legare alla peculiarità del contributo prestato dal singolo partecipe nella realizzazione del fatto, in un tentativo di tipizzazione probabilmente non del tutto riuscito.
Se ci si ferma, infatti, all’analisi dei primi due commi dell’articolo in esame, nessuna perplessità può avanzarsi in ordine alle diverse conseguenze sanzionatorie che derivino per chi presti, ad esempio, il proprio contributo morale in una fase antecedente la esecuzione di una violenza sessualemonosogettiva, rispetto a chi lo presti, invece, essendo fisicamente presente al fatto.
Ma non è solo questa la particolarità della disciplina introdotta, non appena si rifletta sulla circostanza che l’autonomia della fattispecie di violenza sessuale di grupporispetto all’art. 609-bisc.p., altro non è che il riflesso del riconoscimento di un autonomo disvalore alla partecipazione di più persone in sé considerata.
È il caso di ribadire, infatti, che la violenza digruppo, a differenza degli altri reati a concorso necessario conosciuti dal nostro ordinamento, che possono considerarsi prima che giuridicamente già naturalisticamente strutturati come plurisoggettivi, non trae la ragione della sua previsione in forma autonoma da una predataed effettiva necessità di più soggetti agenti per la esistenza stessa del fatto, bensì da una precisa scelta di politica criminale volta a irrigidirela risposta punitiva per un reato ritenuto di maggior allarme sociale.
L’analisi della fattispecie si è mossa, quindi, come è ovvio, dalla ricerca della condotta punibile, descritta genericamente come commissione «di atti di violenza sessuale di gruppo» e che dunque, non può essere, in questo caso, neppure logicamentedisgiunta da un attento controllo della definizione normativa di violenza di gruppo. Sono stati tratteggiati ed approfonditi gli elementi costitutivi del delitto, nel tentativo di illustrare, di contro, l’attuale reazione dell’ordinamento penale, trovandovi la relativa giustificazione giuridica. 
In ultimo, l’attenzione è stata rivolta ai casi giurisprudenziali di estrema attualità, la cui analisi ha comportato un contributo fondamentale per la migliore comprensione delle modalità di esecuzione del delitto di violenza sessuale di gruppo.

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